Questo post fa parte della serie SCRITTRICI CHE AMO.
Ho comprato sembrava una felicità di Jenny Offill a marzo del 2015, ai Frigoriferi Milanesi, durante la prima fiera dell’editoria indipendente.
L’evento del giorno era la nascita di questa nuova casa editrice – NN editore- e il libro era il primo romanzo pubblicato. Ho guardato la copertina -interessante – ho aperto il colophon e ho guardato la data di pubblicazione in Italia. Pubblicato il 15 marzo.
Ricordo che mi colpì. Il 15 marzo nella mia vita ha segnato l’inizio di molte cose: l’apertura di questo blog, per esempio, o il primo appuntamento con quello che sarebbe diventato mio marito. Mi è piaciuta la coincidenza, quindi l’ho comprato. Ricordo che costava 15 euro.
Ho guardato il libro – bella carta, bella scelta tipografica, che eleganza, che cura – pensando che non l’avrei letto a breve: i visi in copertina, nascosti da una cortina fumosa, mi facevano pensare alla dolorosa situazione in cui uno – io – crede di essere al riparo dai mali del mondo, osa sperare di essere felice e poi si trova a fare i conti con la delusione, crudele e inaspettata, e con una valanga di dolore e di solitudine.
Non avevo voglia di leggere di amori finiti male. Di speranze infrante. Ho sistemato il libro tra le Correzioni di Franzen e Cuore di cane Bulgakov o come si scrive e me ne sono dimenticata. Per un anno.
La mattina del 13 maggio sono andata al salone del libro e ho preso un treno presto. Sapevo che in giornata avrei acquistato diversi libri e ne avrei ricevuti in regalo e volevo viaggiare leggera. Sembrava una felicità è un libro snello, pesa poco. L’ho preso per quello.
Ho passato tutto il viaggio a leggere la scrittura secca e precisa di Jenny Offill. Lei dice molto, usando poche parole. Mi ha tenuta incollata alla pagina, isolata dalle persone che erano in treno. L’Italia è piena di businessman che, appena scattano le 9 del mattino, fanno la prima telefonata ad alto volume. Iniziano tutti dicendo “ciao, se cade la linea è perché sono in treno” oppure dicono “ciao sono in treno” e concludono dicendo “ci vediamo domani in ufficio”. Parlano del fatto che il treno sia in orario. Insomma non dicono nulla e usano troppe parole. Con questa litania di sottofondo ho iniziato il libro.
50, 100 pagine. Non è quello che mi aspettavo, non è per niente quel che mi aspettavo. Ahi, sì, c’è la storia, sì: lui, lei, una figlia. Si sente la fragilità, sì. C’è anche la delicatezza e la curiosità della scrittrice che si fissa sui dettagli e li mette nel libro, anche se non sono proprio inerenti alla storia. C’è la storia e c’è il dolore. Ma niente va come mi aspettavo e ciò che accade nel libro è meglio di qualunque fantasia e così un libro che avevo comprato come incoraggiamento per la nascita di un nuovo editore è diventato un libro che mi ha ricordato la grazia con cui Emily Dickinson dichiarava “dì la verità ma dilla obliqua”.
Lo inserisco di diritto nella lista dei #libribelli e se lo leggerete mi farà piacere se mi direte che ne pensate.
Pendolante
Un libro che ti isola dalle telefonate da treno deve valere la pena.
Una lettrice
YES.
giusymar
Non conosco questa casa editrici e purtroppo non l’ho notata al Salone. Ma mi appunto questo libro!
leparoleverranno
E ricordo che al Salone, quello stesso giorno, me lo consigliasti… Segnato.
Zelda
Anche io l’ho letto da poco e amato!!! Soprattutto sto amando molto l’editore che trovo sempre geniale nelle sue pubblicazioni