Come ho incontrato questo libro
Quando ho iniziato l’università c’era uno, sempre seduto al primo banco, sempre con la mano alzata per fare la domanda ai prof, che non ho mai visto dare un esame scritto o un orale. Un giorno mi partì la fantasia che fosse una spia in incognito o uno con problemi di giustizia, insomma che frequentasse le lezioni non tanto per laurearsi ma per avere un alibi.
La mia amica Daniela, molto più pragmaticamente, mi spense le fantasie sul nascere sostenendo che il tipo si faceva pagare dai genitori la bella vita di studente universitario a Milano – con il giro di aperitivi, discoteche, pub, uscite di gruppo, cene in compagnia, serate al cinema e a teatro che si usavano a quei tempi – senza dare mezzo esame neanche per sbaglio. Qualche tempo dopo questa conversazione comprai L’Abisso al Salone del Libro di Torino dove un giovane e simpaticissimo Gianluca Morozzi (già famoso all’epoca per aver pubblicato Blackout, il suo romanzo più famoso e tradotto all’estero) mi aveva autografato la copia del romanzo con molti sorrisi e grande gentilezza. (Credo sia stata colpa del Morozzi se ho pensato che gli scrittori non fossero poi così male.)

Ho mentito, e adesso?
Ne L’Abisso uno studente modello, unica soddisfazione di una madre vedova e sola, ha superato brillantemente tutti gli esami all’università e sta per discutere la tesi di laurea. La madre sta lasciando il paesello, tutta agghindata, e sta prendendo la macchina diretta verso l’università, per vedere realizzarsi il sogno di tutta la sua vita: assistere alla laurea del suo unico, brillante, figlio.
Peccato, però, che gli esami superati brillantemente sono solo una grande bugia. Gabriele, il protagonista, ha passato gli anni a falsificare libretti universitari sempre convinto di poter recuperare, lui ragazzo prodigio, in uno sprint finale. Ora, seduto sul divano in preda ai postumi da sbronza, deve trovare una soluzione in poche ore… ed ecco come lo racconta lo scrittore nel libro:
Il prologo del romanzo
(…) Io sono al capolinea. Mi sono ficcato in una situazione assurda e non so come uscirne, me lo ripeto ancora, ancora, e ancora, non so come uscirne, non so come uscirne, non so come uscirne, lo ripeto finché le parole replicate all’infinito non perdono significato, non so come uscirne, lo ripeto come una cantilena, incollato sul divano, con l’orologio del videoregistratore che segna le cinque del mattino e i muscoli dello stomaco che si contraggono sotto la spinta dell’alcool che cerca di risalire, l’alcool che ho buttato giù ieri sera per non pensare a niente.
Io ho due libretti universitari chiusi nel cassetto. Uno è il libretto ufficiale, l’altro no. Sul vero libretto di esami ce ne sono quattro e solo quattro.
Sul falso libretto di esami ce ne sono ventuno. Su ventuno previsti dal vecchio ordinamento.
Sul falso libretto ho finito gli esami con una media da magistrato della corte dei conti. Fuoricorso, sì, ma neanche di tanto. Le firme false le hanno fatte Drugo e Scaglia. Oppure la mia mano sinistra.
Il giochino era facile e divertente. Io me ne stavo a Bologna a fare il cazzone e a godermi la vita. Ogni tanto spacciavo a mia madre un esame brillantemente superato, lei si sdilinquiva in complimenti e mi allungava trecentomila lire. Destinate a trasformarsi in centocinquanta euro.
Il giochino era così redditizio da volerlo ripetere ancora e ancora e ancora, per diciotto volte. Fino a quando otto mesi fa la somma di tre esami veri e diciotto esami finti non ha fatto ventuno. Su ventuno.
Io ero convinto che avrei recuperato il terreno perduto in quegli otto mesi. E infatti in quegli otto mesi gli esami veri da tre sono diventati quattro. Un trionfo senza precedenti.
Certo, sarebbe stato più saggio da parte mia giocarsi un po’ meglio questa brillante carriera universitaria. Alternare finti esami andati bene e finti esami andati male. Guadagnare tempo. Arrivarci più lentamente a quel ventunesimo esame che funge da soglia per la tesi di laurea.
Solo, mi dispiaceva per mia madre. Mi dispiaceva telefonarle e dirle “Mamma, stamattina mi hanno bocciato a diritto penale, quei bastardi.”
Era brutto farla star male visto che in realtà la mattinata l’avevo passata sotto le coperte a riprendermi da una festa devastante. Mia madre era così contenta di quei trenta e lode mai esistiti, così orgogliosa, che era proprio brutto farla star male.
Così un giorno avevo balbettato al telefono: “Gli esami li ho finiti, mi ci vorranno almeno otto mesi per laurearmi”. E otto mesi, detti così, al telefono sembravano un tempo lungo una vita.
Ecco. Gli otto mesi che sembrano una vita, si esauriscono domani mattina. Alle dieci, di domani mattina.
Mia madre domani mattina si presenterà in facoltà vestita a festa.
Che faccio?
Che cazzo faccio?
Cosa m’invento stavolta, come ne esco?
Sono sul ciglio dell’abisso, e sono arrivato fin sul ciglio dell’abisso per colpa di mia madre, dell’incidente, di Scaglia, di Drugo. Per colpa di un barista idiota. Per colpa di Marianna. Per colpa di tutto, per colpa di tutti. Per colpa della mia malefica testaccia di cazzo, troia puttana.
prologo, Gianluca Morozzi, L’abisso, Fernandel, 2007

Un romanzo scanzonato, comico, incalzante.
Gianluca Morozzi ha vinto diversi premi e ha pubblicato più di trenta romanzi, racconti, romanzi brevi ( l’elenco completo è su wiki) sia perchè ha delle idee geniali, sia perchè scrive benissimo. L’abisso probabilmente non è il suo romanzo più famoso, ne quello più premiato, ma forse è quello in cui traspare una scanzonata “bolognesità”, ossia un certo modo godereccio di stare al mondo, vivendo alla giornata, con un pizzico d’ansia, ma cercando di fare ciò che gli va, al momento. Lo scrittore ha anche dichiarato, in un’intervista, che questo romanzo chiude un ciclo di dieci anni in cui non dava esami all’università e non riusciva a pubblicare i suoi romanzi.
Il libro si legge con un bel senso di attesa, che fa venire voglia di continuare a girare le pagine mentre scorrono inesorabili le ore in cui ci sarà l’inevitabile incontro del protagonista bugiardo Gabriele con mamma Gelida, (sì, si chiama proprio così) A fare da sfondo una Bologna piena di giovani che sballano tra pub e discoteche, alcool, relazioni tragicomiche tra sesso e amore, dove si mescolano angoscia e la spensieratezza di vivere alla giornata, confidando che il domani sarà sempre migliore dell’oggi.
«Non si può morire di università».
Questo romanzo mi è tornato in mente dopo così tanti anni, a causa della drammatica notizia della studentessa dello Iulm di Milano che si è tolta la vita all’interno dei locali dell’università, non sopportando di aver fallito, di non essere riuscita a passare degli esami. I giornali riportano un diffuso timore dei giovani riguardo al giudizio negativo, una incapacità di affrontare il fallimento e il senso di umiliazione e vergogna che ne conseguono.
Milano è la città dove vivo da venti anni, lo IULM è l’ università che ho frequentato, La Cattolica l’università in cui lavoro e non ho alcuna soluzione per un problema così grande. L’Abisso mi è tornato in mente con uno di quegli incastri di associazioni mentali che non riusciamo pienamente a controllare. Ho pensato a questo romanzo perché Morozzi dipinge un enfant prodige in crisi di identità. Anche se è molto intelligente il protagonista fallisce con gli esami, con le ragazze, si droga e beve come uno scaricatore di porto, ruba i soldi alla madre, si caccia in un pasticcio senza via d’uscita. Forse nella nostra generazione era normale essere così, un po’ sulle nuvole, interessati soprattutto a cazzeggiare e a vivere il momento, con il cuore gonfio di speranza per il domani, che sarebbe arrivato, sicuro, e sarebbe stato migliore. Forse oggi i ventenni sono più sani e più seri – osservano la dieta dei settantenni con il colesterolo alto e non bevono alcool perché fa male, vanno in palestra regolarmente e studiano, con serietà e impegno – ma i dati dicono che sono profondamente sfiduciati, quasi apatici, e, dopo il periodo della pandemia, i dati dicono che siano molto fragili.
Mi è tornato in mente questo libro, perchè è scritto benissimo e perchè ricordavo la storia. Il romanzo è dissacrante anche nel finale: se lo leggerete assisterete a un metaforico scivolone sulla buccia di banana, seguito da una fragorosa, irriverente risata a bocca aperta, fatta senza nessuna vergogna, anzi, con un certo godimento, ed è così che auguro di essere ai giovani, sfrontati, sfacciati, ma vivi, a godersi il più possibile di questa breve, stupida, cazzo di vita.
Alla prossima,
Alessandra