Come si distingue un amore infelice da un amore disfunzionale? Chi sono i manipolatori? Il nostro passato ci rende vulnerabili? Soffrire per amore non va più di moda e questo libro insegna a scegliere per sé stessi la felicità. La dottoressa Ameya Canovi è una psicologa esperta in relazioni disfunzionali e ha voluto mettere a frutto la sua esperienza intima di dipendenza affettiva e il suo lavoro con centinaia di pazienti in un saggio divulgativo e godibile.

Le radici nell’infanzia
Ho sentito una psicologa dire che se un bambino chiede aiuto significa che i genitori stanno facendo un buon lavoro. Infatti chiede aiuto solo chi sa che sarà ascoltato. Se c’è una buona corrispondenza affettiva tra genitore e bambino, se il genitore risponde alle richieste del bambino e si crea un legame reciproco, il bambino si sentirà abbastanza sicuro da avanzare una richiesta d’aiuto: nella sua esperienza ha imparato che se chiama, qualcuno risponde. Anche (non solo) questo significa essere genitori abbastanza buoni.
I neonati abbandonati alla nascita dalle madri, invece, imparano presto a non piangere perché capiscono che, per quanto sia lungo e straziante il loro richiamo, la madre non verrà a consolarli. L’assenza della figura materna si trasforma in un triste silenzio, una muta assenza della figura primaria di cura. (si, ok, anche il padre, ma biologicamente almeno nei primi 24 mesi, è la madre)
Gli effetti disfunzionali prodotti da un attaccamento insicuro nella vita adulta sono molteplici. Per esempio, il bambino che ha avuto un buon attaccamento saprà chiedere aiuto in caso di un problema (una malattia, la perdita di lavoro, etc) migliorando la sua vita, mentre chi cercherà di fare tutto da solo dimostrerà di non aver ricevuto quella base sicura da cui poter partire per il mondo e annasperà nel tentativo di tenere tutto sotto controllo. Il bambino con attaccamento sicuro avrà una base di maggior forza verso cui lanciarsi nell’imprevista sfida della vita.
Ameya Canovi tratteggia le principali teorie dell’attaccamento, e le teorie sistemiche, degli effetti dell’albero genealogico in poche parole – in alcuni punti forse davvero troppo poche! – fornendo una base teorica solida per capire le radici della dipendenza affettiva.
Le storie vere, i casi clinici
Le parti teoriche sono scorrevoli e godibili anche grazie ai numerosi casi clinici, casi di pazienti della psicologa, che presentano disfunzioni relazionali. È interessante infatti l’approccio scelto dalla Canovi: non si focalizza sulle patologie eclatanti, che necessitano di cure psichiatriche, come il narcisismo patologico di cui oggi si parla molto. La psicologa invece parla a tutti: “la dipendenza affettiva è un disturbo della relazione caratterizzata da un attaccamento morboso e ossessivo a un’altra persona che non ricambia e non manifesta la nostra stessa intensità.”
La dipendenza affettiva è classificata dagli psicologi come New Addictions, accanto alle dipendenze comportamentali quali gioco d’azzardo o shopping compulsivo. La psicologa sostiene che maggior parte delle persone non ha mai sentito parlare di questo disturbo: è molto più semplice coglierne i segnali leggendo i casi pratici presentati nel libro, invece che dal punto di vista teorico.
Segnali di dipendenza affettiva
Ameya Canovi identifica, nel corso del libro, alcuni campanelli d’allarme che potrebbero indicare una relazione disfuzionale con dipendenza affettiva.
Per esempio:
- Temi che la relazione possa finire da un momento all’altro e sei convinto che la tua vita non abbia un senso senza l’altro.
- Percepisci la relazione sbilanciata, tu investi e dai in maniera sproporzionata. Senti di dover essere sempre disponibile e di non poter mai dire di no.
- Ti immagini scenari apocalittici in cui l’altro ha già scelto qualcuno sicuramente migliore di te.
- Vivi con un senso di inadeguatezza e non riesci mai a rilassarti.
- Hai un senso di urgenza, di pericolo perenne e vai in ansia se non risponde immediatamente a un tuo messaggio.
Nel caso in cui uno si riconoscesse in alcune o in tutte le frasi elencate, niente panico, la dottoressa offre delle strategie per uscire dalla sofferenza della dipendenza affettiva.
Uscire dal lungo inferno della dipendenza affettiva
Ameya Canovi, che sostiene di aver sofferto, lei stessa, di dipendenza affettiva e la chiama un lungo infermo.
Nel libro ci sono dei brevi capitoli dedicate ad episodi di vita della dottoressa Canovi: il racconto della sua infanzia, la ricerca della casa come metafora della ricerca dell’amore, e altri momenti determinanti nel suo viaggio di autoguarigione personale sono raccontati con il tono con cui si fanno le confidenze all’amica del cuore.
A mio avviso spostano il ruolo del terapeuta da esperto, competente sì ma algido e distante, a persona, competente ma appassionata di psicologia anche per i traumi vissuti nella propria vita. E questo approccio caldo e empatico secondo me è parte del grande successo che questo libro ha avuto sul pubblico.
Per quanto riguarda le strategie per uscire dalla dipendenza affettiva, Canovi propone di sopperire all’insoddisfazione provata nella propria relazione prendendosi cura di se stessi. Il famoso Self Care, trova un modo di soddisfare te stesso, giorno per giorno.
Come posso occuparmi di me in questo preciso instante? La dottoressa suggerisce la meditazione. Credo che alla fine il metodo che funziona di più sia quello di dire sì ai propri desideri.
Ecco qualche esempio di ciò che significa fare self care, per come l’ho imparato io negli ultimi anni. Hai bisogno di fare una passeggiata all’aria aperta? Fallo. Vuoi fare una lunga doccia calda anche se per l’ambiente sarebbe meglio di no? Falla, metti un timer e goditi dieci veri minuti di acqua calda. Vuoi comprare i colori e colorare? fallo. Ci sono mille cose da fare ma sei stanca fisicamente? Riposa. Desideri prendere una laurea? Prendila. Desideri uscire a pranzo e non c’è nessuno disponibile? Esci. Vuoi iscriverti in palestra? Vai. Stai bene con i tuoi chiletti in più? Tienili. Vuoi andare a un concerto che piace solo a te? Vai, anche se sei solo. Occuparsi di sè significa essere in ascolto di se stessi, fare compagnia a se stessi, dire sì ai propri desideri, anche i più banali, o sciocchi, o ambiziosi, o stravaganti.
Insomma, come dice il mio maestro di meditazione, dire sì a sé stessi non è un lusso ma una necessità per essere pieni e soddisfatti. Una delle cose che fa il dipendente affettivo è pensare che sia l’altro a dover riempire e soddisfare la tua vita. Questo è un atteggiamento infantile, ma purtroppo, pochi di noi lo lasciano nell’infanzia insieme ai giocattoli, anzi, la maggioranza lo trascina nell’età adulta, pur essendo ormai ampiamente cresciuti.
Uscire dalla dipendenza affettiva significa non cercare più la mezza mela, ma essere una mela, intera. Questo significa che non si cercherà una relazione per completarci, ma per fare un tratto di strada della vita insieme, in compagnia, per realizzare progetti ancora più grandi, per godere della reciproca compagnia.
Per poter essere la mela, intera, fare bisogna imparare a dire sì a se stessi, a realizzare i propri sogni e, se si sogna troppo in grande, a chiedere aiuto, senza paura. Io su quest’ultima parte ci sto ancora lavorando, ma come dice la Canovi, è un viaggio che non finisce mai, si impara costantemente a stare con se stessi!
La mia opinione.
La dottoressa Canovi ha partecipato al podcast sul narcisismo di Selvaggia Lucarelli e ora è in televisione con Amore Criminale, diventando l’esperto di riferimento italiano del meccanismo di dipendenza affettiva. Il libro è un ottimo saggio light, se passate il termine, ossia non ha la pretesa di esaurire le teorie sistemiche e di attaccamento, ma le sfiora appena e ha l’intento divulgativo di aiutare quante più persone possibile a capire questo meccanismo relazionale. Intento pienamente riuscito vedendo le numerose recensioni.
Ho apprezzato la scrittura, fresca, scorrevole, autorevole quanto basta, anche se ci sono alcune ripetizioni per esempio la parola incistarsi, che per me ha un suono orribile, appare troppe volte, io l’avrei segnalato e la ricchezza e la varietà dei casi clinici.
Il focus è sulle relazioni di coppia, dove probabilmente è più semplice individuare la dipendenza affettiva, ma mi sarebbe piaciuto che la dipendenza affettiva fosse affrontata non solo come dinamica di coppia ma anche nelle relazioni famigliari, nei confronti della madre, del padre, di una nonna particolarmente autoritaria, del lavoro, nella relazione con il capo o con i colleghi. Credo che la storia personale di Ameya sia interessante e avventurosa e gli inserti sono ben posizionati nel testo, ma mi è mancato il racconto un po’ emotivo, da donna e non da psicologa, di quelle relazioni di coppia che l’hanno fatta soffrire come un cane di dipendenza affettiva. L’ho sentito come una promessa mancata.
Sono invece davvero lodevoli gli esercizi finali – ho iniziato a farli e sono potenti e ben formulati – e la richiesta continua al lettore di smetterla di atteggiarsi a vittima (senza nulla togliere alle vittime) invita le lettrici e i lettori a rimboccarsi le maniche e a diventare protagonisti della propria vita, hic et nunc, iniziando a darsi quel nutrimento che probabilmente è mancato alle origini e anche nei membri dell’albero genealogico. Su questo sono molto d’accordo ed è davvero un buon testo divulgativo che sta avendo un impatto reale.
Infine una nota personale, Ameya Canovi detesta il concetto di perdono, perchè sostiene che questa è una parola calata dall’alto che non dovremmo usare nei confronti dei nostri genitori (verso i quali siamo sempre piccoli). Sono in disaccordo: il perdono è un atto di liberazione che si fa in primo luogo verso se stessi e non c’è la minima necessità di informare il perdonato. Il perdono è un processo intimo, da fare in solitudine, che comporta un cambiamento nel proprio stato interiore, non nella relazione con l’altro. Qui l’esercizio ve lo suggerisco io: si può scrivere una lettera molto sincera (da non consegnare) per sfogare rabbia e tristezza verso chi ci fa soffrire concludendo con “Perdonandoti io sono finalmente libera e posso tornare ad essere padrona dei miei sentimenti”. Ecco che il perdono diventa scoperta alchemica, perchè ti dai il permesso di buttare via il rancore, l’insoddisfazione e la voglia di vendetta. Non implica aver risanato una relazione, implica non soffrire per quella relazione e anche questo è un po’ occuparsi di sé.
Alla prossima,
Alessandra