“Che cosa si poteva fare contro il destino? Si domandava Max Ashkenazi. Quel miserabile fratello, quel testone che a scuola non aveva mai combinato niente, che negli affari era un babbeo, che in vita sua non aveva mai fatto altroché spassarsela, ebbene, nonostante questo, quel disgraziato continuava a trionfare su di lui. Era incredibile. Era una contraddizione al buonsenso. Da una parte c’era uno che fin da bambino aveva lavorato, calcolato, progettato, che si era sacrificato per la sua carriera senza risparmio, superando tutti gli ostacoli; dall’altra parte c’era uno scervellato che aveva sprecato i suoi anni in bagordi e dissolutezze, che non si era mai negato niente, nessuna comodità, nessun piacere, nessun vizio. E quale dei due aveva il premio? Il disutile, il perdigiorno aveva mietuto un trionfo dopo l’altro, quasi senza neanche a darvi, e si trovava suppergiù allo stesso livello dell’altro; anzi, in certo senso, anche un po’ più su: semplicemente perché era un prediletto del destino. E chissà che cosa ancora gli riservava il futuro! On tutta la sua mentalità moderna è essenzialmente irreligiosa, Max Ashkenazi cominciava a sentire che c’era un destino maligno contro di lui e si sentiva gonfiare dentro di sè un senso di impotenza. Tutto era stato scritto moltissimo tempo prima da una qualche mano invisibile e tutti i suoi sforzi, tutti i suoi sacrifici, erano inutili. (…) Fu da questa disperazione che sorse in lui un profondo e appassionato risentimento. Così non poteva andare avanti. Un uomo può sopportare soltanto fino a un certo punto, e non oltre. Doveva fare qualcosa, e subito; (…) C’era voluta questa passione, questo risentimento, questa furia ribelle, per cristallizzare in Max Ashkenazi una risoluzione che diversamente, nel corso normale degli eventi, non avrebbe osato prendere in considerazione.”
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